Caso Welby

Questa settimana, al di là dei clamori politici suscitati dalla imponente manifestazione di piazza della Cdl e dall’annunciato riconteggio voti, due eventi hanno scandito le cronache dei
principali telegiornali e organi di stampa nazionali. Si tratta di due vicende tra loro apparentemente molto lontane ma tenute insieme da un sottile filo rosso, rappresentato dal valore che la nostra cultura attribuisce al significato, in sé sacro, della vita umana.

I due eventi, tra loro molto dissimili sono, il primo, lo sciopero della fame organizzato da diversi parlamentari appartenenti al vecchio partito radicale, che richiedono a gran voce la possibilità
giuridica di “staccare la spina” per il malato terminale Piergiorgio Welby, da anni condannato all’immobilità da un male terribile e inguaribile, mentre il secondo, molto più frivolo e mondano, è rappresentato dalla notizia riguardante l’incriminazione di un impresario e di un fotografo di famosi personaggi del mondo dello sport e dello spettacolo, tra i quali comparivano i nomi di Simona Ventura, Michelle Hunziger, Eros Ramazzotti e molti altri volti noti al grande pubblico, come il calciatore Adriano dell’Inter e Totti della Roma.

In entrambi i casi c’è di mezzo la vita e il valore che ciascuno di noi da’ ad essa.

Nel primo caso, certamente molto più drammatico, ci si interroga angosciosamente se sia lecito all’uomo accorciare o allungare i termini naturali della sofferenza nel corso di una malattia terminale. Questo è un grosso caso di coscienza e di civiltà, nel quale la legge dovrà dare spazio prima di tutto alle ragioni della morale e della scienza, ma non è questa la sede
per affrontarle.

Il secondo caso, invece, dimostra in tutta la sua patetica evidenza, di quanta poca consistenza sia fatta la vita apparentemente patinata dei cosiddetti Vip, delle star dello spettacolo e di certi grandi divi del calcio o della televisione. Senza voler giudicare nessuno, si tratta troppo spesso di vite immolate al successo e alla notorietà, in cambio di una fuorviante visione dell’esistenza.

Questi signori rappresentano però, soprattutto per le giovani generazioni, modelli di vita da emulare e a cui guardare con fiducia ed affetto. E così, con questi spettacoli, si rischia di allontanare intere generazioni dai valori autentici della vita, fatta dal lavoro e dalle fatiche di ogni giorno, con tutte le ansie e le delusioni proprie dell’esistenza umana, che però è anche piena del calore e della gioia di quei rapporti, innanzitutto familiari, di amicizia e di lavoro che le danno senso e speranza.

La tradizione della maggior parte delle nostre terre è intrisa di questa cultura popolare che ancora sa riconoscere la famiglia, il lavoro e gli ideali ad essi legati come i valori autentici per
i quali saper condurre una vita sociale normale, apprezzabile e piena di gusto. Le parole sacrificio e fatica alla maggior parte degli italiani non hanno mai fatto paura, perché più imponente di queste c’è sempre stata quella dell’educazione morale, personale e famigliare, a garantire il proprio posto nella società, guadagnato e mantenuto con dignità, a testa alta e senza la necessità di clamori di sorta.

 

Speriamo che i brutti esempi che ci provengono dalle cronache mondane, ci sappiano far tornare a riflettere sulla necessità di riprendere, instancabilmente, il cammino di amore all’educazione di un popolo, che passa, innanzitutto, attraverso la documentazione dei valori in cui crediamo e per i quali ci alziamo alla mattina per andare a lavorare, educando i nostri figli con le parole e con l’esempio, molto più che la tv. E che l’Immacolata, madre di tutti noi, ci assista anche in questo.